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La mattanza

 

Immoderatamente assenti

di Gianluca Ranzi

 

Nelle fotografie della Mattanza scattate da Monzino a Favignana nel 1995 sono molte le cose che mancano. Manca l’ipocrisia e la faciloneria di un estraneo che pensa di arrivare sul posto, scattare delle foto e ripartire col primo traghetto del giorno dopo; manca l’arroganza del reportage di costume che si sofferma sul sangue e sui muscoli per fare più audience; manca la completezza documentaria con la preparazione delle reti e delle barche, la partenza dal porto e l’arrivo alla “camera della morte” dove sono confluiti i tonni; mancano le scene cruente, i colpi sferrati con l’arpione, il mare che si tinge di rosso, i tonni issati a bordo e il rientro in porto; manca in definitiva la convenienza a sfruttare un tema del genere.

Oltre al suo sfruttamento Monzino si lascia alle spalle anche la sua ovvietà rappresentativa e la sua tanto decantata straordinarietà di costume, tanto che da un certo punto di vista si potrebbe argomentare che in questa serie di fotografie manca proprio la Mattanza. Eppure nessun documento visivo riesce a portarsi più vicino allo spirito di quanto si verificava a Favignana da secoli fino all’ultima Mattanza avvenuta nel 2007. Oggi infatti la Mattanza rimane solo ricordo, racconto e cimeli per riempire le sale del bel Museo Florio di Favignana – ex stabilimento di inscatolamento del tonno -, residua illusoriamente sull’etichetta scaltra di qualche confezione di tonno venduta nei negozi per turisti delle Egadi e dà persino il nome a un improbabile “Aperitivo Mattanza” servito con ragionevole senso del business in un bar locale.

La Mattanza fotografata da Monzino è molto lontana da tutto questo e va oltre la tanto amata attitudine del politically correct per cogliere non tanto la cronaca dell’evento e della sua dinamica, ma il suo spirito secolare, la sua normalità e la sua intrinseca, e anche banale, necessità. La mancanza quasi totale dell’ossessione verso la lotta e il sangue non è qui un’edulcorazione estetica né tanto meno risponde a un’esigenza di pudore rappresentativo, o peggio ancora di imbecille censura filo-ecologista, ma permette di puntare l’attenzione più sul mondo che sul modo, più sul legame che non sullo strappo, laddove il mondo e il legame sono innanzi tutto il mare. Il mare è la prima ragione di vita per i tonni e per i tonnaroti ed esso decide dell’abbondanza o della penuria, della vita e della morte, di chi lo abita e di chi lo sfrutta rispettandone l’equilibrio e restandone vittima, dall’una e dall’altra parte; quello stesso mare che è, usando il titolo di un bellissimo libro dello storico Emmanuel Le Roi Ladurie, “tempo di festa, tempo di carestia”.

Monzino si è avvicinato al mare e alle sue storie di pesci e di uomini con la delicatezza e la lentezza di un antropologo che va sul posto a studiare qualcosa che ancora non conosce e ha prodotto un lavoro che non ha la meticolosità omnicomprensiva della ricerca scientifica ma possiede la capacità ispiratrice e l’evidenza evocatrice della poesia.

In fin dei conti, come sostiene Mario Trevi, mentre quando lo scienziato parla della natura spiega per poter comprendere, il poeta prima la comprende per poterla poi eventualmente spiegare. Il poeta e l’artista possiedono questa capacità prodigiosa di comprendere, di penetrare oltre la barriera del fatto nudo e crudo per coglierne l’energia di fondo che lo anima, avvicinandosi alla ragione del manifestarsi del ciclo continuo della nascita e della morte, della sopravvivenza e dell’estinzione. Monzino ricorda con il suo lavoro che chi comprende tutto e decide dell’oblio, della ricchezza, della sazietà, della fame e della tragedia è il mare, che, come ha scritto Achille Bonito Oliva su questo lavoro, è: “materia viva di persone, cose e animali che si trasforma nello spasma di immagini istantanee. Ironica testimonianza del transito della vita alla morte e viceversa accompagnato dal luccichio di pesci che non parlano ma risplendono”.

Anche queste foto non parlano, non illustrano, non documentano, non provano una tesi ma risplendono di una cultura antica che ha avuto la sua ragion d’essere e che oggi, per tanti motivi che non hanno necessariamente a che fare con l’ambiente e con la natura, non esiste più. Qui invece il fuoco dell’azione ritorna ad essere il mare e Monzino col mare di Favignana ha convissuto, interrogandolo, guardandolo attentamente, rispettandolo, ammirandolo e anche temendolo. Prima di scattare le sue immagini si è aggirato per i luoghi dei pescatori, ne è con fatica diventato presenza familiare, si è fatto accettare e benvolere con il garbo, la modestia, la tenacia e la forza morale che distinguono i suoi modi, è stato preso a bordo quando altre troupe televisive e altri fotografi venivano rifiutati dal Rais e rispediti a casa. Questo spiega anche perché il suo sguardo fotografico non è mai banalmente frontale ma svela le cose lentamente e si serve della serie per aggirare il soggetto e riprenderlo senza violentarlo, senza bruciarlo nell’evidenza rappresentativa, ma cogliendolo in parte impreparato, fuori da ogni posa artificiale o convenzionale, quasi al confine della sua rappresentatività. E il confine in questo caso è dato dal mare, che avvolge le figure fino a trasfigurarle, smangiandone i confini, risolvendole nel baluginare di un colpo di pinna e facendole così passare dalla cronaca alla storia, dalla documentazione all’arte, tanto che qui anche i grigi che nascono dai dialoghi del bianco e del nero e che sfumano i contorni delle figure possiedono l’enigmatica bellezza del complesso universo della condizione umana.

La moderazione è nella maggior parte dei casi un paravento per riciclare l’ipocrisia e il tornaconto individuale, la meschinità e soprattutto la mancanza di idee. Non c’è moderazione in queste immagini perché esse puntano al tutto e lo raccontano attraverso il nulla, senza avere timore della mancanza perché Monzino da artista sa bene che è nei vuoti del linguaggio e nelle pause d’immagine tra le figure che si annida il mistero che circonda l’uomo e il suo essere nel mondo. Nella fotografia di Monzino l’eccesso è l’assenza, quanto gli permette di arrivare al cuore della realtà.